Libera(mente)

Prove tecniche di vita


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Elsa, che aveva proprio un bel sedere

Faccio sempre lo stesso giro, ogni mattina. Siedo sempre allo stesso tavolo d’angolo del bar, quello davanti alla vetrina. Fumo tre sigarette leggendo il giornale, mai una di meno, mai una di più. Una l’accendo controllando i titoli di prima pagina, una scorrendo le notizie della cronaca cittadina, una alla pagina dello sport. Tre e basta. Mi sono imposto qualche regola, giusto per aver qualcosa su cui trasgredire. Non spesso, ma a volte sì. La vita di un vecchio non sarebbe poi male se non fosse così obbligatoriamente libera.

Non ho paura della vecchiaia.
Io ho paura di dimenticare, paura di svegliarmi un giorno, allungare una mano sul comodino e non trovare più niente, nemmeno il mio nome.

Coltivo conoscenze superficiali eppure indispensabili a mantenermi vivo. In questo quartiere io ci sono nato, l’ho visto tremare sotto le bombe del quarantatre, l’ho visto morire al tempo dell’esodo verso le grandi periferie, l’ho visto riempirsi di ragazzi e di vita, adesso che è diventato, di fatto, un quartiere studentesco.

Faccio la spesa ogni giorno, mi piace perdermi in conversazioni da mercato, tirate nostalgiche sul sapore della frutta di una volta, incontri consueti, il caffè con Mario l’elettrauto, la sosta da Giovanni che prima di vendermi il prosciutto me ne fa assaggiare tre o quattro diverse qualità. Insomma, la mia è un’esistenza senza scosse, ma non vuota, né tantomeno triste. Non ho rimorsi io, non ho rimpianti. Ho sbagliato e fatto tesoro degli errori, ho dato e ricevuto, ho amato e sono stato amato. Molto amato. Le donne mi piacciono tutte, ognuna ha in sé qualcosa di speciale, un particolare che mi affascina.

Anna aveva splendidi capelli rossi, era una furia tra le lenzuola, di lei amavo lo stordimento che mi procurava ogni volta che facevamo l’amore. Lisetta aveva un viso da bambina impaurita, ma sapeva far risaltare di me il lato migliore, con lei ero tenero e protettivo, mi sentivo un gigante. Rita, oh Rita, che risata avevi! Con te ridevo anche durante i baci, ci mordevamo le labbra in una confusione di sillabe e mugolii divertiti, eri l’immagine dell’allegria.

E poi Elsa.
Abitava nel mio stesso palazzo, lei scala B ed io scala A. Ci separava un cortile comune dove tutti lasciavamo le biciclette, regno esclusivo di gatti affamati e bambini scalmanati. La vidi la prima volta una sera afosa di giugno. Ero affacciato in finestra a fumare e a incantarmi alle virate acrobatiche dei rondoni. La finestra di Elsa era proprio di fronte alla mia. La vidi portare in stanza la tinozza grande d’alluminio. La osservai fare la spola più volte col secchio pieno d’acqua calda, poi sbottonare rapida il vestito di cotone a piccoli fiori blu, farlo cadere con grazia intorno alle caviglie e sfilare dalla testa la sottoveste di batista bianco. E infine la vidi nuda. Le gambe forti, i capezzoli grandi e scuri ed un capolavoro di sedere. Rimasi imbambolato col mozzicone acceso tra le dita, mentre lei insaponava disciplinata ogni centimetro di pelle chiara e poi da una brocca di ceramica versava acqua pulita sulla schiena e sul collo. Avrei potuto allontanarmi per delicatezza, forse non si era accorta di avere uno spettatore, ma fu in quel momento preciso che seppi, con assoluta certezza, che io l’avrei avuta prima o poi tra le braccia, e mi sembrò un diritto inalienabile quello di guardarla apertamente. Lei, senza nome ancora, che era già mia.

Elsa era giovanissima e io pure, cominciò da quel giorno una storia, la nostra, fatta di rossori adolescenziali, di approcci più o meno fortuiti, di appuntamenti domenicali e baci sulle panchine del parco. Poi vennero le bombe e i giorni difficili, la fame, la miseria, la paura. Elsa scappò in campagna, da certi parenti suoi, io rimasi a barcamenarmi con la borsa nera. Mi scriveva lettere un po’ sgrammaticate ma sincere, sospirava augurandosi che la guerra finisse presto per poter tornare. Io, da parte mia, rispondevo a una lettera su tre e intanto mi consolavo tra altre braccia, tormentandomi con vistosi sensi di colpa e subito perdonandomi con la scusa che un uomo, certi bisogni, li deve soddisfare comunque. Ero sinceramente convinto d’essere innamorato di Elsa, ma mi sbagliavo.

Non lo ero. Anzi: non lo ero ancora.

Le lettere cominciarono ad essere meno frequenti e poi non ne ricevetti più. Quando la guerra finì, il quartiere cominciò a ripopolarsi; tornarono tutti, tornò anche Elsa. Tornò al braccio di un marito conosciuto in campagna e sposato di fretta, prima che la gravidanza fosse troppo evidente. Aveva un bel figlio Elsa, gli occhi limpidi e i riccetti fitti. Appena la vidi, mi resi improvvisamente conto che non avrei potuto averla più, e in quel momento m’innamorai davvero.

Non si desidera mai quel che si possiede, ma solo quel che non si è sicuri di poter possedere mai. Per Elsa fu lo stesso, mi disse tempo dopo con un sorriso disarmante, un pomeriggio piovoso in cui c’eravamo nascosti a far l’amore dentro un magazzino d’un amico mio. Mi guardava come se volesse farmi una fattura, strapparmi l’anima per portarla via. Io l’aspettavo quasi ogni giorno in un posto diverso, rubavo tempo al lavoro e al sonno pur di passare qualche ora a contatto di quella pelle profumata e calda. Elsa aspettava fino all’ultimo minuto disponibile e poi scappava via. Io la guardavo andare scuotendo la testa e ogni volta giuravo a me stesso che sarebbe stata l’ultima volta, che non potevo vivere con quel dolore sordo di non averla con me in ogni momento, e che per questo dovevo lasciarla, per non soffrire più.
E invece un giorno fu lei, quasi annegata in un diluvio di lacrime, a lasciarmi. Meglio un enorme dolore, ma risolutivo, che un lento consumarsi nella consapevolezza dolente che la nostra era una storia senza futuro e che sarebbe finita appena io avessi incontrato un’altra.

Diceva lei.

Io continuai ad amare tutte e nessuna senza fermarmi mai in nessun nido, e non me ne pento. Eppure, un’altra come lei non l’incontrai mai.

Elsa l’ho rivista tre giorni fa, appesa al braccio di una ragazzetta bruna che era il suo ritratto esatto di settant’anni fa. Camminava piano piano guardando dritta davanti a sé. Mi sono avvicinato e le ho preso le mani:

“Elsa sono Antonio, come stai?”

Lei mi ha guardato senza il minimo interesse e mi ha risposto:
“Lei chi è?”

“Sono Antonio, Elsa, sono io”.

La ragazza al suo fianco mi ha guardato scuotendo la testa e alzando le spalle, come a dire “è inutile, non insista”.

“Elsa non ti ricordi più di me? Ma come, non ti ricordi di Antonio?”

Per un attimo i suoi occhi opachi sono tornati a brillare come quando mi baciava nascosta in qualche sottoscala e poi mi ha detto:
“Lei conosce Antonio? Me lo saluti tanto, gli dica che io mi ricordo sempre di lui….”

“Ma sono io, mi vedi Elsa?”

“Anche lei si chiama Antonio? Vi assomigliate un po’, ma lui è molto, molto più giovane…”

Le ho stretto le mani e l’ho fissata come faceva sempre lei, tentando di rubarle l’anima. Non ho trovato nulla nei suoi occhi. Nulla che appartenga al presente, a questo tempo e a questo mondo. Soltanto immagini lontane di una vita che ha quasi dimenticato di aver vissuto.
Frammenti, lampi.

La ragazza bruna le ha messo una mano sulla spalla e le ha detto, col tono che si usa con i bambini piccoli: “Saluta il signore adesso, nonna. E’ tardi, dobbiamo rientrare”. Elsa ha ripreso il ritmo dei suoi passi minuscoli e ha proseguito sul marciapiede senza più voltare nemmeno la testa verso di me.

Sono rimasto per un po’ a guardarla mentre si allontanava, coi capelli bianchi e radi che le svolazzavano intorno alla fronte, proprio come i suoi ricordi sbiaditi e fragili.
Poi mi sono girato ed ho ripreso la solita passeggiata. Ho messo la mano in tasca, ho tirato fuori le sigarette e ne ho accesa una.

La quarta.

(scritto molto, molto tempo fa, quasi “sotto dettatura” di Fossati e della sua splendida canzone)